Dunque, ricapitoliamo: sulle ceneri di Nexus è nato Pixel. Il nuovo progetto di smartphone made in Google riparte da una serie di punti fissi: sistema operativo sempre aggiornato alla release più recente, elevata qualità costruttiva e prestazioni allo stato dell’arte. Esattamente come i Nexus, solo che i Pixel ora costano di più, seguendo la scia delle più recenti versioni degli smartphone top di gamma realizzati come reference design per Android. Era il caso di cambiare nome? L’unica parentela sostantivale tra le due generazioni è data dalla “x” centrale. Per il resto l’impatto emotivo e mentale è differente. Nexus deriva da una citazione di Star Trek, precisamente dall’universo parallelo nel quale muore il glorioso Capitano Kirk della celebre Uss Enterprise. Un nome altisonante, forte, ampio e autorevole.
Google Pixel: un nome compatto
Pixel fa rima con piccolo: i pixel sono i singoli punti che compongono l’immagine. Spesso così minuscoli da non essere neppure visibili. Si pensi a un display ad alta definizione. Ebbene, anche nella pronuncia è un nome più minimal, ridotto, compatto. La scelta di Google è andata nella direzione dirompente di creare un momento di discontinuità su ogni fronte con una gamma di prodotti (Nexus) che non ha mai decollato davvero. Troppo legata a un progetto di lunga gestazione. Troppo ripiegata su un concetto di “Android puro” forse troppo anticipato rispetto alla reale maturazione della piattaforma. Maturazione intesa in termini principalmente grafici ed estetici. Tale da rendere spesso ben poco avvincente l’utilizzo del launcher predefinito dell’Os rispetto alle versioni più curate, omogenee e perfezionate sviluppate dai brand. Nexus ha pagato l’eccessivo anticipo. O la fretta di Google di avere una sua gamma di prodotti. Ora questi modelli non saranno abbandonati (sono già stati tolti dallo store americano) ma, si legge in alcuni tweet e informazioni pubblicate on-line, il supporto continuerà. Sono però il passato.
Google Pixel e Pixel XL: due in uno
Il cimento di Big G come produttore di dispositivi mobili ora prende il nome di Pixel: Cpu Qualcomm Snapdragon 821 (quad core a 2,15 GHz), 4 GB di Ram, fino a 128 GB di storage, display da 5” (Full HD) e 5,5” (Quad HD), fotocamera da 12 Megapixel e batteria da 2.770 e 3.450 mAh. E propongono un linguaggio estetico in diretta competizione con Apple, Samsung e Huawei. Parliamo al plurale. Sì perché i Pixel si fanno in due: compatto e XL, con prezzi che sfiorano i 700 dollari. Un riposizionamento di prezzo verso l’alto giustificato da un hardware più potente e da un’estetica più curata, con un design che ricorda molto da vicino le più recenti generazioni di iPhone. Questo l’hardware. Ma per Google è evidente che questi dispositivi mobili sono una sorta di commodity evoluta di lusso. Devono essere belli e prestanti per colpire il gusto delle persone. Per portare nelle loro mani ciò che veramente interessa alla società di Mountain View guidata da Sundar Pichai. Ossia una nuova e più articolata forma di intelligenza artificiale basata sulla capacità del sistema operativo di fare da tramite con il cloud di Google e con l’infrastruttura di machine learning.
Google Assistant, al servizio di chi?
In sostanza, avrete in mano uno smartphone “figo” come strumento per permettere a Big G di fornirvi una nuova categoria di servizi in grado di capire le abitudini, interagire maggiormente con le attitudini d’utilizzo e imparare quotidianamente le modalità di fruizione di contenuti, app, funzioni e così via. Questa è la sintesi di Google Assistant, un aggregatore di applicazioni di Big G e di terze parti. La piattaforma mira a personalizzare al massimo l’esperienza d’uso dello smartphone. Di fatto rende le app un accessorio a una più vasta tecnologia di interazione basata su un linguaggio naturale. Le app non muoiono ma cambiano: diventano servizi correlati e ancillari rispetto a questo motore che risponde alle necessità in tempo reale e in modo congruo. Assistant è un progetto aggregante rispetto all’ecosistema e coinvolgente nei confronti dell’utente, perché lo abituerà ad avere le informazioni e le funzioni che servono esattamente nel momento in cui sono indispensabili. Cambierà il modo di utilizzare lo smartphone.
Come foglie al sole
Il resto sono satelliti a completamento e tattici per presidiare le aree d’azione dei competitor. Così Google Home è una risposta ad Amazon Echo; Google Wi-Fi è il router che va a sfidare Apple Airport; DayDream VR è l’ufficializzazione che i visori per la realtà virtuale sono un accessorio dello smartphone e non altro; Chromecast Ultra è l’ennesimo tentativo di connettere in modo nativo Tv e smartphone, questa volta con il supporto 4K. Strumenti necessari, indispensabili. Come foglie dell’albero Android perfezionante, migliorate e ancora più capaci di assorbire energia solare per animare la sintesi clorofilliana di dati che porta linfa vitale ad Android. Perché l’obiettivo ultimo è continuare a espandersi, crescere e rafforzarsi nel mondo mobile. In questo importante mercato Google non può più accontentarsi di essere un over the top che fornisce servizi. Deve presentarsi come interprete credibile anche a livello hardware. Per diventare in breve tempo (si spera) uno dei protagonisti anche per vendite di dispositivi.
Pixel sì ma senza esagerare
A un patto: senza pestare troppo i piedi a Samsung & Co. Google continua a vestire i panni sia del fornitore della piattaforma, sia del competitor diretto dei marchi con cui ha un rapporto di fornitura. Quindi qualsiasi scalata Big G abbia in mente, sempre che ce l’abbia in mente, dovrà avvenire in un regime di rispetto del vicinato, di conservazione delle partnership esistenti. Android è diventato grande, importante e diffuso grazie al ricco ecosistema di brand e vendor che l’hanno utilizzato. Pestare i piedi ai grandi marchi, con un prodotto che vada in diretta collisione con la loro offerta, potrebbe nel lungo trasformarsi in un invito troppo ghiotto a cercare (davvero) piattaforme alternative. Insomma, spingere troppo sul concetto Nexus/Pixel e quant’altro potrebbe incentivare i brand a guardare in modo deciso altrove (come se non lo facessero già…) per fortuna, al momento, non trovando alternative così credibili e collaudate come l’Os del robottino verde. Il rischio di un binomio Google-Android come è già stato per Microsoft-Lumia-Windows è davvero troppo grande per essere accettabile, allo stato attuale. Solo un brand riesce a legare indissolubilmente hardware e software avendo riscontri eccezionali: Apple. E non è al momento replicabile come esperimento. Android, per il suo bene, è giusto che rimanga poliglotta, ecumenico e differenziato. In questo perimetro, tuttavia, i Pixel hanno libertà di movimento…