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Apple: le royalties dell’app store sono troppo care. E Netflix sbatte la porta

L’inizio dell’anno non è stato particolarmente dolce con Apple. La casa di Cupertino, duramente colpita nelle finanze dal declino nelle vendite dei modelli iPhone 2018, si trova ora ad affrontare un altro caso, che riguarda proprio la sua principale fonte di profitto dopo gli smartphone.

L’azienda guidata da Tim Cook, infatti, ha più volte sottolineato come, nonostante la perdita di profitti per le minori vendite di iPhone, avrebbe potuto contare sulla divisione servizi, in forte crescita. Le attività incluse in questa categoria comprendono, ad esempio, AppleCare, Apple Pay, App Store, iTunes, Apple Music e altro ancora.

L’amministratore delegato di Apple, Tim Cook, ha sottolineato che il business dei servizi dell’azienda beneficia della grande base installata di iPhone, che si ritiene raggiunga 1,5 miliardi di unità a livello planetario. Per tale motivo, questa area di attività non è influenzata dal rallentamento della più recente gamma di prodotti iPhone.

Apple ì punta a raggiungere i 50 miliardi di dollari di ricavi dai servizi entro il 2020, partendo da quota 30 miliardi del 2017. Durante il quarto trimestre fiscale del 2018, che comprende i mesi da luglio a fine settembre, i ricavi da servizi hanno raggiunto un record trimestrale di 10 miliardi di dollari. Mentre Apple ostenta ottimismo per questo redditizio ramo aziendale, alcuni analisti avanzano invece perplessità sulla tenuta del business. Secondo Toni Sacconaghi, di AB Bernstein, le aziende che vendono abbonamenti nell’App Store stanno iniziando a ribellarsi contro le eccessive royalties imposte da Apple, tanto da chiamare con il termine di “Apple Tax” le percentuali richieste da Cupertino per poter vendere prodotti e servizi dallo store.

Apple addebita ad aziende come Netflix e Spotify una percentuale tra il 15% e il 30% delle entrate mensili generate dagli utenti dell’App Store. La società della mela morsicata preleva il 30% di ciò che un abbonato paga per il primo anno e il 15% di quello che paga negli anni successivi.

Per evitare questa sorta di tassa, compagnie come Netflix e Spotify non si stanno certo stracciando le vesti per acquisire nuovi abbonati attraverso le loro app iOS. Un  esempio su tutti: il mese scorso Netflix ha dichiarato che non consentirà più ai nuovi abbonati, o ai clienti che ritornano dopo aver lasciato il servizio, di iscriversi tramite l’ecosistema di Apple. Mentre gli abbonati in essere possono continuare a effettuare pagamenti in-app, gli altri dovranno sottoscrivere (o rientrare) andando sul sito Web di Netflix.

Luca Maestri, Chief Financial Officer di Apple, ha tuttavia minimizzato la questione: anche se Netflix è il più grande cliente dell’App Store, lo scorso anno ha contribuito alle entrate totali dei servizi per meno dello 0,3%. In altre parole, Cupertino non sembra troppo preoccupata. Sacconaghi tuttavia, teme un crescente malcontento: il malumore potrebbe presto sfociare in un vero e proprio ammutinamento da partre dei titolari delle app presenti nello store. C’è di più. La preoccupazione più grande riguarda un caso attualmente pendente di fronte alla Corte Suprema. Se il tribunale dovesse emettere una sentenza che considera la”Apple Tax” come un eccesso di monopolio e i costi applicati ecessivi, la crescita dei ricavi provenienti dai servizi potrebbe essere gravemente compromessa e subire un brusco stop. Al momento è presto per trarre delle conclusioni, anche perché una decisione sul caso non è imminente. Il tribunale competente infatti sta ancora valutando se ci siano i presupposti dell’azione legale da parte degli attori querelanti.

Ma in futuro, di certo, la policy di Apple sarà scrutinata attentamente e le aziende potrebbero non voler più sacrificare una fetta così ampia di ricavi e organizzarsi diversamente per la vendita dei loro prodotti.