Una delle domande più ricorrenti per chi investe in criptovalute e fa trading è: che imposte si devono pagare in Italia se si investe in bitcoin o in altre valute virtuali?
In riferimento al trattamento fiscale applicabile alle operazioni relative ai bitcoin e alle altre valute virtuali, non si può prescindere da quanto affermato dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che si è espressa sulla materia.
Interpretando su quale regime impositivo fiscale applicare agli effetti dell’IVA a chi acquista e rivende bitcoin, la Corte Europea ha riconosciuto che le operazioni consistenti nel cambio di valuta tradizionale (cioè la moneta avente corso legale) contro unità della valuta virtuale (bitcoin e viceversa), effettuate a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza del prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita praticato dall’operatore ai propri clienti, costituiscono prestazioni di servizio a titolo oneroso – soggette a tassazione ai fini dell’imposta sul valore aggiunto.
Per quanto concerne invece la tassazione ai fini delle imposte sul reddito dei clienti della Società, persone fisiche che detengono bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa, le operazioni di acquisto e vendita di valuta non producono redditi imponibili soggetti a tassazione perché manca la finalità speculativa.
Una start-up che esercita trading con i bitcoin è soggetta all’IVA e altre imposte?
È il caso di una società che, volendo esercitare un’attività di intermediazione attraverso operazioni di acquisto e vendita di bitcoin, si è giustamente chiesta se tale attività fosse assoggettabile all’IVA e alle altre imposte e se inoltre potesse essere assoggettata agli adempimenti previsti dal sostituto di imposta.
L’Agenzia delle Entrate si è espressa sulla questione con la Risoluzione n. 72/E definendo il “bitcoin” una tipologia di moneta virtuale detta criptovaluta, utilizzata come moneta alternativa a quella tradizionale avente corso legale. Le criptovalute hanno due caratteristiche fondamentali:
- hanno natura digitale e non fisica, perché sono create, memorizzate e utilizzate su dispositivi elettronici (come smartphone) e conservati nei c.d. wallet (portafogli elettronici) e sono liberamente accessibili e trasferibili dal titolare che è in possesso delle credenziali, in qualsiasi momento e senza la necessità di intervento di terzi, come le banche;
- i bitcoin vengono emessi e funzionano grazie a dei codici crittografici e ai dei complessi calcoli algoritmici. In sostanza i bitcoin sono generati con la creazione di algoritmi matematici attraverso un processo di estrazione denominato tecnicamente “mining”.
I soggetti che creano e sviluppano questi algoritmici sono detti “miner”.
Per utilizzare i bitcoin gli utilizzatori “user” li acquistano da altri soggetti in cambio di valuta legale ovvero gli accettano come corrispettivo per la vendita di beni e servizi.
La circolazione dei bitcoin come mezzo di pagamento si fonda sulla fiducia degli utilizzatori che la ricevono come corrispettivo nello scambio di beni e servizi. L’utilizzatore quindi riconosce il valore di scambio del bitcoin, indipendentemente da un obbligo di legge.
Si è formato così un sistema di pagamento decentralizzato, che utilizza una rete di soggetti paritari (peer to peer), non regolamentato da un’autorità centrale che governa la stabilità nella circolazione.
Che atteggiamento mostra l’Europa verso la circolazione dei bitcoin e delle altre valute virtuali?
Secondo i giudici europei, le operazioni effettuate con i bitcoin svolte in modo professionale ed abituale, consistenti nel cambio di valuta tradizionale avente corso legale contro unità di valuta virtuale, bitcoin e viceversa, manifestatesi con pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza tra il prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita praticato dall’operatore ai propri clienti, sono a tutti gli effetti prestazioni di servizio a titolo oneroso, pertanto costituiscono attività rilevante oltre ai fini dell’Iva anche dell’Ires e dell’Irap.
Cosa pensa invece in Italia l’Agenzia delle Entrate?
L’Agenzia delle Entrate recependo i principi comunitari ritiene che l’attività svolta da una società, remunerata attraverso commissioni pari alla differenza tra l’importo pagato dal cliente che intende acquistare o vendere bitcoin e la migliore quotazione reperita da essa sul mercato, va considerata ai fini IVA quale prestazione di servizi esenti ai sensi dell’articolo 10, primo comma, n. 3) del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
Invece, le componenti di reddito che la società realizza mediante l’attività di intermediazione nell’acquisto e vendita di bitcoin, al netto dei relativi costi inerenti l’attività, sono soggetti ad imposizione Ires ed Irap.
Se a fine esercizio la società detiene bitcoin a titolo di proprietà, questi saranno valutati secondo il cambio in vigore alla data della chiusura dell’esercizio ed assumeranno rilievo ai fini fiscali ai sensi dell’articolo 9 del testo unico sulle imposte sui redditi D.P.R. 917 del 1986 (Tuir).
Gli utenti che detengono bitcoin fuori da un’attività d’impresa finanziaria devono pagare le tasse?
No! I clienti della società, ai fini delle imposte sul reddito, se questi detengono bitcoin al di fuori dell’attività di impresa non saranno soggetti a tassazione. In pratica l’Agenzia delle entrate qualifica gli acquisti e le vendite di bitcoin come operazioni a pronti di valuta che non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa.
Un’operazione in cambi a pronti è una transazione in cui si ha il trasferimento immediato di una somma in una valuta in cambio di un’altra somma espressa in un’altra valuta sulla base dell’attuale valore del tasso di cambio.
Quindi in questi casi le società non sono tenute ad alcun adempimento come sostituto di imposta.