Un articolo di un collega letto qualche giorno fa, peraltro interessante e riguardante “Stadia” e suoi i possibili scenari, mi ha ricordato che anche io ho da tempo un “pezzo” nel cassetto. A tutti piacciono i videogiochi innovativi, quelli che hanno inventato un genere o comunque fornito le fondamenta per costruire qualcosa di nuovo, ma si tende a dimenticare i titoli meno noti, che hanno riscosso meno successo, eppure importantissimi per la storia dei videogiochi. Sarebbe infatti facile parlare di Diablo, di Dune, Elite o altri famosissimi titolo che tutti amano e conoscono. Accanto a questi capolavori immortali, infatti, ci sono giochi che hanno direttamente o indirettamente innovato il mondo dei videogiochi, contribuendo a farli diventare come sono oggi. Anche se erano brutti…
Republic: The Revolution (2003) Elixir Studios
Republic: The Revolution, sviluppato e prodotto da Demis Hassabis, non è stato certamente un titolo perfetto. L’idea di disegnare una metropoli viva, pulsante, e da influenzare con le nostre azioni è difficile da rendere oggi, figuriamoci con l’hardware a disposizione nel 2003. Un’impresa improba dal punto di vista tecnico e altamente sfidante anche solo da progettare. Siamo infatti di fronte a un gestionale di tipo politico con tutte le difficoltà e le variabili del caso. Insomma, per farla breve, il videogioco non ebbe il successo sperato ma a Demis servì a capire cosa voleva fare: studiare l’intelligenza artificiale e la capacità di apprendere delle macchine. Il progetto successivo fu Deep Blue, il computer che sconfisse l’imbattibile campione sovietico Kasparov in una leggendaria partita a scacchi. Pur non avendo lasciato un’impronta al pari di altri titoli, Republic: the Revolution rimane un mirabile tentativo di elevare i videogiochi a qualcosa di più alto e complesso, ma anche la volontà di aggiungere un’intelligenza artificiale in grado di apprendere dai propri errori. Un tema ricorrente nel mondo dei videogiochi che nemmeno il multiplayer o il crossplatform hanno saputo sconfiggere. Se le AI (intelligenze artificiali) dei giochi moderni sono finalmente credibili, lo dobbiamo anche a titoli come Republic: The Revolution.
Farenheit (2005) – Quantic Dream
Oggi David Cage è universalmente riconosciuto come autore videoludico di successo, basti pensare a Heavy Rain, Beyond: Two Souls e il recente Detroit: Become Human. Eppure nel 2005, quando uscì Farenheit, il capostipite di questo genere di giochi, le cose non andarono benissimo sotto il profilo della critica. Fahrenheit aveva troppi difetti: era ripetitivo, noioso, e la sceneggiatura ambiziosa. C’erano troppe scene alla “Dragon’s Lair” che richiedevano di premere un pulsante in un dato momento (Quick Time Event), difficili da digerire anche per il giocatore più accanito. Alla fine, a malincuore, lo abbandonai. Eppure, i primi dieci minuti di gioco furono esaltanti. Una delle esperienze videoludiche più appaganti ed emozionanti. Ci si trovava in una situazione angosciante, colpevoli di un omicidio all’interno del bagno di un locale. Intanto il tempo, raccontato attraverso l’utilizzo di inquadrature multiple, scorreva inesorabile mentre un agente di polizia era pronto a entrare. Adrenalinico, realistico, pulsante. Mai visto niente del genere. Ancora una volta i geni del capolavoro erano stati instillati. Presto o tardi avrebbero attecchito. E così è stato. Per la cronaca il titolo non fu un flop commerciale, vendette infatti oltre un milione di copie ma fu senza dubbio un prodotto imperfetto.
La storia dei videogiochi è piena di capolavori mancati
Insomma, questi sono solo due esempi, ma la storia dei videogiochi è fatta anche da titoli non hanno sfondato ma che hanno aperto la strada a nuove idee. Un pionierismo che oggi non è più possibile a causa degli imponenti costi di produzione che obbligano i grandi publisher a non rischiare più. Anche un solo flop, infatti, può pregiudicare la vita di un’azienda. Il mercato degli smartphone con i loro store dedicati ha per fortuna dato vita a un nuovo mercato, simile a quello degli anni ’80. Libero, indipendente, ricco di fermento e guidato menomate software house che tentano la via del successo. Produzioni da poche migliaia di euro, a volte che centinaia, capaci di scalare le classifiche in pochi giorni. Ma è stato solo un fuoco di paglia. Oggi, a distanza di meno di dieci anni, anche il mercato mobile è dominato dai colossi dell’industria videoludica. Le produzioni indipendenti sono sempre di meno, e pochi titoli sono capaci di accaparrarsi quasi tutti il fatturato degli store.
Una nuova era
Ad oggi la situazione del mercato videoludico è in profonda trasformazione. Il mondo dei videogiochi secondo i dati di AESVI (L’associazione che rappresenta l’industria dei videogiochi nel nostro Paese) è cresciuto fino a 1,5 miliardi di euro (era 1 miliardo nel 2016) in tutti i segmenti. Il software genera nel complesso un miliardo, suddiviso abbastanza equamente tra “fisico” (35%), App (37%) e digitale (28%). A dominare sono però sempre i grandi publisher, ormai anche nel mercato della app, dove titoli freeware come Fortnite o Apex Legends, fanno la parte del leone. Eppure, da qualche parte, in qualche scuola o cameretta, un giovane Hassabis, un Cage o perché no, un novello Peter Moulineux, stanno pensando a qualcosa di nuovo. E sarà di nuovo showtime…