È il 2015. Travis Kalanick, chief executive di Uber, entra nel quartier generale di Apple per visitare Tim Cook. Come riporta il New York Time, non si tratta di una visita di piacere, né di una proposta di business.
Cook parla con calma ma con voce ferma e intima a Kalanick di fermare immediatamente una pratica scorretta dell’app di Uber, pena l’esclusione dall’App Store e la fine del servizio su tutti i dispositivi iOS.
Kalanick incassa il colpo e cerca di spiegare perché la sua società continuava a tracciare i movimenti degli utenti anche dopo che questi avevano cancellato l’app dal proprio smartphone e, addirittura, effettuato il reset del dispositivo.
Cosa ancora più grave era che tale pratica, chiamata tecnicamente fingerprinting, era stata portata avanti in chiara violazione delle linee guida che Apple impone alle app che ospita sul suo store e, inoltre, fosse stata volontariamente nascosta agli ingegneri di Cupertino.
La richiesta di Cook venne naturalmente accolta e l’app di Uber rimase sullo store di Apple.
Tuttavia, proprio il New York Time ha portato in questi giorni alla ribalta questa storia, rimasta per due anni segreta. Mike Isaac, la descrive con dovizia di particolari e traccia anche un profilo della vita spericolata e spesso borderline del Ceo di Uber. Già, borderline proprio come il fingerprinting che Uber, a detta della società, utilizzava per impedire che qualcuno rubasse un telefon0, installasse l’app e effettuasse una corsa costosa pagandola con una carta di credito clonata.
Insomma secondo Uber, tale pratica traccerebbe gli utenti disonesti, impedendo loro di riutilizzare l’applicazione dopo essere stati bannati.
Una scusa, alla prova dei fatti, che non ha retto di fronte a Apple, che avrebbe preferito condividere un sistema antifrode con Uber, realizzarlo insieme con i propri ingegneri, trovando una soluzione che garantissie maggiormente la privacy dei suoi consumatori.